Quando Dante salvò Primo Levi
Il 2021 è l’anno di Dante sono trascorsi 700 anni dalla sua morte ma i versi della Divina sfidano il tempo e la memoria
Giusy Gatti Perlangeli
Siamo entrati nell’anno di Dante. Sono passati sette secoli dalla sua morte (Ravenna, 14 settembre 1321) e ancora ci incanta. Ci incanta e ci salva: i suoi versi, “mandati a mente” quando maestri e professori avevano il coraggio di assegnare interi canti a memoria, ci sono rimasti dentro come un DNA profondo che sfida il tempo e la memoria.
Punto di riferimento imprescindibile, i versi della Commedia sono lì, sponda sicura alla quale aggrapparsi nell’ora più buia. Primo Levi ce lo racconta da par suo, con quella prosa asciutta e mai fredda, lucida testimonianza dell’inferno del lager.
Tra le baracche e il refettorio, l’infermeria e i forni si impazzisce, si smarrisce la ragione ancor prima della vita. Questo è l’ultimo stadio. Dopo aver perso tutto, si finisce per perdere se stessi: “quando abbiamo finito, ciascuno è rimasto nel suo angolo, e non abbiamo osato levare gli occhi l’uno sull’altro. Non c’è ove specchiarsi, ma il nostro aspetto ci sta dinanzi, riflesso in cento visi lividi, in cento pupazzi miserabili e sordidi”.
Per Levi, come per Dante, “significar per verba non si porìa”. La lingua si rivela orfana delle parole adatte a esprimere l’abdicazione all’umanità: “Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di cosi non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile”.
Entrambi non trovano le parole.
Ma è proprio in questo “non dire” l’eloquente potenza del loro messaggio.
Nella “perpetua Babele” di Auschwitz, “in cui tutti urlano ordini e minacce in lingue mai udite e guai a chi non afferra al volo”, in cui si aggira “un tramestio di personaggi senza nome né volto annegati in un continuo assordante rumore di fondo (…) la parola umana non affiorava”.
“Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero non capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga”.
La parola: è di questo che ha bisogno il deportato Levi, matricola 174517.
Tra le urla, le menzogne, la mistificazione della realtà e l’attribuzione arbitraria delle colpe, ha bisogno della parola per restare umano, aggrappato al di qua del baratro della barbarie.
Ed è qui, che la poesia di Dante, pur studiata malvolentieri a scuola, viene invocata al soccorso. Lo stesso Levi ebbe a confessare: “Preferivo la chimica. Mi annoiavano le lezioni di teoria poetica, la struttura del romanzo e roba del genere. Ma quando fu il momento e dovetti scrivere “Se questo è un uomo”, e allora avevo davvero un bisogno patologico di scriverlo, trovai dentro di me una sorta di “programma”. E si trattava di quella stessa letteratura che avevo studiato più o meno con riluttanza, di quel Dante che ero stato costretto a leggere alla scuola superiore.”
Dante però non si offende: sa bene che se non s’incontra il prof. innamorato dei suoi versi, la Commedia non passa. Non ce l’ha con Levi e quindi arriva: Dante scende di nuovo agli inferi per salvare un giovane chimico torinese.
Tutta l’opera è disseminata di citazioni, riferimenti, simmetrie, parallelismi, ma anche asimmetrie e ribaltamenti: Dante è lì, la Commedia è lì e porta umanità laddove questa è morta. Ma c’è un capitolo in “Se questo è un uomo” che ricostruisce come, nella mente del deportato Levi, il Sommo Poeta irrompa come la tromba del Giudizio Universale e se ne impossessi, sia pur tra blackout, sprazzi di versi e lacune mnemoniche.
È il momento in cui Levi si pente di non aver studiato abbastanza, di non aver colto l’occasione unica che la scuola offre ad ogni studente, di imparare ciò che (nella gran parte dei casi) mai più studierà nella vita, ma che poi resta per sempre.
In quel momento Levi ha bisogno di Dante, vuole tornare indietro…a quando i problemi stavano tutti nel manuale di letteratura e in un quaderno dalla copertina nera.
Nel capitolo XI intitolato “Il canto di Ulisse” narra la storia dell’amicizia con Jean, detto Pikolo, il più giovane del Kommando Chimico. Una mattina i due erano di corvée per il trasporto del rancio, una marmitta di cinquanta chili retta da due stanghe di legno che doveva essere ritirata a un chilometro di distanza: un duro lavoro che, tuttavia “comportava una gradevole marcia di andata senza carico”. Pikolo aveva “scelto accortamente la via in modo che avremmo fatto un lungo giro, camminando almeno un’ora, senza destare sospetti”.
Il ragazzo, che essendo di origini alsaziane, parla perfettamente francese o tedesco (“È indifferente, può pensare in entrambe le lingue”) esprime un desiderio: “È stato in Liguria un mese, gli piace l’Italia, vorrebbe imparare l’italiano. Io sarei contento di insegnargli l’italiano: non possiamo farlo? Possiamo. Anche subito (…), l’importante è di non perdere tempo, di non sprecare quest’ora”.
Apparentemente bizzarra la scelta di Levi: iniziare dal canto XXVI dell’Inferno, il canto di Ulisse.
“… Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di scegliere, quest’ora già non è più un’ora. Se Jean è intelligente capirà. Capirà: oggi mi sento da tanto”
L’operazione non è semplice, ma per Levi rappresenta un’esperienza antica e nuova a un tempo.
“… Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l’Inferno, cosa è il contrappasso. Virgilio è la Ragione, Beatrice è la Teologia.
Jean è attentissimo, ed io comincio, lento e accurato:
Lo maggior corno della fiamma antica
Cominciò a crollarsi mormorando,
Pur come quella cui vento affatica.
Indi, la cima in qua e in là menando
Come fosse la lingua che parlasse
Mise fuori la voce, e disse: Quando…
Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese! Tuttavia l’esperienza pare prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della lingua, e mi suggerisce il termine appropriato per rendere «antica»”.
Blackout della memoria. Levi non si ricorda.
“E dopo «Quando»? Il nulla. Un buco nella memoria «Prima che sì Enea la nominasse». Altro buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile:
«… la piéta del vecchio padre, né ’l debito amore Che doveva Penelope far lieta…» sarà poi esatto?”
A questo punto, una luce, un’epifania!
“… Ma misi me per l’alto mare aperto.
Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché «misi me» non è «je me mis», è molto più forte e più audace, è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al di là di una barriera, noi conosciamo bene questo impulso. L’alto mare aperto: Pikolo ha viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte si chiude su se stesso, libero diritto e semplice, e non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane”.
Sente il mare Levi, gli occupa la mente, passa per gli occhi e gli inonda l’anima. Il suo profumo, le tracce della salsedine “dolci cose ferocemente lontane”.
«Mare aperto». «Mare aperto». So che rima con «diserto»: «… quella compagna picciola, dalla qual non fui diserto», ma non rammento più se viene prima o dopo. E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle Colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio”.
È una questione antica come la scuola: parafrasare, dice Levi, è sacrilegio! La poesia è comunicazione empatica, immediata, è flusso di coscienze, intuizione, analogia. Farne la “versione in prosa” è una contraddizione, giustificata (neanche troppo) da un mero fine didattico.
“Non ho salvato che un verso, ma vale la pena di fermarcisi:
… Acciò che l’uom più oltre non si metta.
«Si metta»: dovevo venire in Lager per accorgermi che è la stessa espressione di prima, «e misi me». Ma non ne faccio parte a Jean, non sono sicuro che sia una osservazione importante. Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto, mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda”.
Il tempo scorre lento nel campo, ma Primo e Jean non ne hanno più: l’ora di lezione sta passando troppo in fretta.
“Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca:
Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti
Ma per seguir virtute e canoscenza.
Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono”.
Lo stupore per la perfezione di questi versi (fusione altissima tra contenuto e forma), porta Levi al di là della sua stessa condizione di reietto, al di là del filo spinato, delle urla incomprensibili. Al rumore di fondo viene contrapposta la musicalità dei versi: prova inconfutabile dell’essere ancora tenacemente umani. Umani, nonostante tutto.
Umano è il valore di quest’amicizia: Pikolo probabilmente ha capito ben poco, ma chiede a Primo di ripetere, perché “sa” che quei versi gli fanno bene.
“Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si
è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle.
Li miei compagni fec’io sì acuti…
… e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuol dire questo «acuti». Qui ancora una lacuna, questa volta irreparabile. «…Lo lume era di sotto della luna» o qualcosa di simile; ma prima?… Nessuna idea, «keine Ahnung» come si dice qui. Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno quattro terzine”.
È buono Pikolo: “si è accorto” che per il suo amico italiano recuperare quei versi è vitale:
“– Ça ne fait rien, vas-y tout de même.
… Quando mi apparve una montagna, bruna
Per la distanza, e parvemi alta tanto
Che mai veduta non ne avevo alcuna.
Sì, sì, «alta tanto», non «molto alta», proposizione consecutiva. E le montagne, quando si vedono di lontano… le montagne… oh Pikolo, Pikolo, di’ qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino!”
Ecco, dopo il mare, nel ricordo di Primo Levi si stagliano alte le “sue montagne”, quelle di cui conosceva ogni sinuosa forma in cui la roccia si inerpica e diventa tutt’uno col “bruno della sera. Struggimento infinito.
“Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono. Pikolo attende e mi guarda.
Darei la zuppa di oggi per saper saldare «non ne avevo alcuna» col finale. Mi sforzo di ricostruire per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita: ma non serve, il resto è silenzio. Mi danzano per il capo altri versi: «… la terra lagrimosa diede vento…» no, è un’altra cosa. È tardi, è tardi, siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere:
Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque,
Alla quarta levar la poppa in suso
E la prora ire in giù, come altrui piacque…
Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo «come altrui piacque», prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui…”.
Pikolo e Primo sono lì «come altrui piacque»: è difficile capire, quale “volontà” abbia permesso la creazione di questo inferno.
“Siamo oramai nella fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle. – Kraut und Rüben? – Kraut und Rüben –. Si annunzia ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rape:
– Choux et navets. – Kaposzta és répak.
Infin che ‘l mar fu sopra noi rinchiuso”.
Come Ulisse con Dante, Levi ci ha rivelato come, di fronte alla paura più grande che l’uomo possa provare (la paura dell’annullamento di sé e della morte), si scopra l’essenza più profonda della propria umanità.
Lo dico da docente di lettere: ogni lezione di italiano è una vertigine. Parte da uno spunto, ma poi si eleva, fino ad attingere significati che trascendono la disciplina scolastica e non terminano col suono della campanella, ma germogliano, aprendo la strada ad una ricerca di senso continua.
Attraverso il Canto di Ulisse, Levi recupera, sia pure per un’ora, quell’umanità e quella dignità sistematicamente negate nel campo di sterminio, e, nello stesso tempo testimonia che il recupero della memoria è condizione essenziale della conoscenza.
Senza memoria non sappiamo niente.
Senza memoria non siamo niente.