Le notti dei Santi lungo la strada per Melilli

Pellegrino in provincia di Siracusa sulle orme dei devoti di San Sebastiano a Melilli e Sant’Alfio a Lentini

Dario Bottaro

È tarda sera quando si esce da casa. Zainetto in spalla. Dentro una bottiglia d’acqua, dei fazzoletti per asciugare il sudore e le eventuali – che dico eventuali tanto lo so che un pianto almeno ci sarà – lacrime di commozione. E ancora lo smartphone, il giubbino catarifrangente, pochi soldi e il rosario, quello non può proprio mancare. E via. Via da casa. Spalanco il portone d’ingresso e fuori è buio e non c’è nessuno. Mi incammino per quella che è l’inizio della lunga strada. La strada per Melilli. È la notte di San Sebastiano, la notte del viaggio a piedi, del ritrovarsi, della preghiera, dei pensieri che corrono veloci come i ricordi di tanti anni fa, quando iniziavo a fare il viaggio a San Sebastiano.

Prima in compagnia, poi da solo. Sì da solo e senza paura, senza timore dell’ignoto, senza paura del buio che per buona parte del cammino, oltre la città, diventa l’amico fraterno con cui condividere emozioni, pensieri, ricordi, parole, commozione, stanchezza e fatica, ma soprattutto il viaggio. È la notte di San Sebastiano, non a Siracusa, ma in un paesino distante poco meno di 20 km e da secoli – non si sa bene da quanto effettivamente – la gente parte dalle proprie case lasciandosi alle spalle Siracusa o altri paesi dell’interland siracusano per raggiungere, a piedi, San Sebastiano di Melilli. Esatto proprio così, di Melilli e non a Melilli. È vero che si va a Melilli, ma è San Sebastiano di Melilli che si va a trovare. È il piccolo santo antico e miracoloso che si viene ad omaggiare, ad inneggiare, a pregare, a toccare e sfregare con un semplice fazzoletto, un rosario, un nastro colorato. Ce ne sono tantissimi fuori dalla bella basilica barocca. Nastri di tutti i colori che i pellegrini appoggiano con delicatezza e profondo rispetto a quella statua antica che da secoli vede sfilare ai suoi piedi migliaia di persone. Un fiume umano di bianco vestito e cinto di rosso, o con la fascia a tracolla. Bianco per la purezza e il ricordo dei “Nuri” che anticamente sfilavano con soltanto dei calzoncini e le fasce rosse da una spalla al fianco opposto, simbolo dell’amore, del martirio e della fede. Quella fede antica che si è trasmessa di padre in figlio e che ancora oggi, per grazia di Dio o del Santuzzo martire delle frecce, si tramanda ancora. È un cammino lungo, quello della sera del 3 maggio verso Melilli. C’è chi percorre pochi chilometri e chi ne compie venti o addirittura cinquanta, in base al paese di provenienza. Non c’è molta gente per strada. Siracusa ha per le sue strade poche auto che sfrecciano là dove al mattino si apposta la polizia municipale con l’autovelox che invece la sera diventa quasi una tratto da relly. Ma non importa, il cammino è lungo. Mi lascio alle spalle Siracusa, la mia città. È un brivido svoltare oltre la curva e vedere da lontano le migliaia di luci delle raffinerie. Quelle “raffinerie” che sono state il sogno di uno sviluppo moderno dopo gli anni Sessanta del secolo scorso e che oggi vengono considerate parte di quel Quadrilatero della morte che corre dalla costa a nord di Siracusa passando per Priolo, Melilli e raggiungendo Augusta dove altri impianti hanno cambiato i connotati alla sua rada, proprio di fronte al mare, ma questa è un’altra storia. Passerò da lì, proprio davanti gli ingressi del Petrolchimico e poi oltre, verso Priolo Gargallo e poi su per la collina per giungere a Melilli. Il tempo passa in silenzio o rotto dal sussurrare della preghiera. Un rosario per le mie intenzioni, meglio due, facciamo tre, numero perfetto. A quelle Ave Marie si alterna ogni tanto una sigaretta, poi di nuovo il silenzio, rotto solamente dal passaggio di qualche auto che sicuramente mi avrà preso per scemo, ammesso e non concesso che non sappia che è una notte particolare. Scivolano i minuti con soltanto il rumore dei miei passi. Scivolano sui pensieri, sulle parole dette e quelle soltanto implose, ripetute a mente. Ma in questa notte posso dire tutto, posso raccontare ogni cosa a San Sebastiano, posso confidare tutto, e sono certo che lui mi ascolta. Poi a esaudire…bhe quella è un’altra faccenda. Ma non è una gara a chi chiede di più. Ognuno si porta sulle spalle – invisibili – le pesantezze della propria vita. Ognuno cammina con la sua croce, con i suoi silenzi assordanti che fanno più scruscio (rumore) della banda musicale che tra qualche ora allieterà abitanti, pellegrini e forestieri vari. È il cammino a decidere il passo. Non sei tu, sono i tuoi piedi e le tue gambe. Sono già stanche e provate, ma sono loro che dettano il passo. Per strada c’è gente, non si è da soli. Si incontrano singole persone, gruppetti di amici o familiari, tutti con un’unica meta, la stessa intenzione. Andare a San Sebastiano di Melilli. Di Melilli sì. Perché quella statuetta tanto venerata dai devoti di mezza Sicilia e oltre, arrivò per miracolo in quel paese. Vuole la leggenda che nel 1414 una nave mercantile facesse naufragio nelle coste a nord di Siracusa, verso Stentinello e Tapsos (luoghi custodi di reperti archeologici millenari). Il carico naufragò in mare, ma la cassa che conservava la statua del santo arrivò a riva e lì, una volta scoperta, fu presa dai Siracusani – o meglio ci provarono senza riuscirci – si avvicendarono i Priolesi che solo secoli dopo prenderanno questo nome – ma non succedeva nulla. La cassa a riva era e a riva restava. Ferma, immobile, affossata, piantata, nchiuvata (inchiodata) potremmo dire, tra riva e mare. E arrivarono i Melillesi. E il carico prezioso si fece leggero e facile al trasporto. Così i Melillesi lo portarono verso il loro paese antico. Una bellissima terrazza che guarda dall’alta collina al mare, in un paesaggio che ha del mitologico. E a un certo punto quella cassa con la statua dentro si appesantì. Tanto fu il peso che i pii abitanti dovettero lasciarlo. E in quella zona rurale, tra le pietre, rifugiarono il Santo nella grotta e lì lo onorarono mentre vi costruivano una chiesa in suo onore. È per questo che San Sebastiano è di Melilli.

ln questo paese è come un concittadino, una persona illustre che a pieno titolo rappresenta questo luogo che è terrazza iblea. Fatta di lunghe spianate che guardano al mare e vi crescono alberi da frutto e un tempo c’erano anche le api, tantissime api e si produceva un miele dolcissimo. Melilli infatti significa “il miele è là”. In questa zona dell’altopiano ibleo la tradizione del miele è antichissima, ma anche questa è un’altra storia. Torniamo al viaggio. Quel viaggio che costa davvero tanta fatica, ma che una volta giunto alla meta, diventa balsamo per il cuore, lacrime per gli animi che non riescono a esprimersi con le parole ma solo con gli occhi. Sono centinaia gli occhi che si incontrano, soprattutto sul sagrato della barocca Basilica prima che le grandi porte di bronzo si spalanchino per lasciare vedere il Santo. San Sebastiano è già lì, esposto sul suo sontuoso fercolo d’argento, intronizzato dalle colonne tortili che ne sorreggono la cupola ricca di ghirigori e volute che enfatizzano il tutto. E lui è lì, al centro. Piccolino e ricoperto d’oro. Migliaia di ex voto che i devoti hanno lasciato come impegno o per grazia ricevuta. Si vedono solo le gambe, sottili, che mostrano ancora i segni dei secoli e specialmente le ferite della guerra. San Sebastiano fu ridotto in pezzi. Era il 1943 e la Sicilia veniva bombardata. E in quella pioggia di missili si trovò coinvolta la bella Basilica del Santo. Squarciato l’altare maggiore che custodiva – e custodisce ancora al suo interno – il Simulacro di San Sebastiano, la statua veniva ridotti in pezzi. Ah quale dolore infinito per il popolo che in quelle sembianze androgine aveva visto da secoli il sorriso del Cielo. Fu portata a Siracusa e restaurata, un lavoro che durò diversi mesi, ma poi fece sontuosamente ritorno a casa, nella sua Basilica, nella sua Melilli, con una imponente processione di cui si conservano ancora delle fotografie storiche. I passi, oltre al Santo sono i veri protagonisti di questa festa siciliana, sono i silenziosi “eccomi” di migliaia di persone, uomini, donne, bambini che si recano a venerare e a pregare il Santuzzo ibleo, la cui dimora – la Basilica – oggi guarda solo di striscio quel paesaggio non più aulico d’un tempo, ma costellato di grandi camini e cisterne e impianti che sono stati assunti a simbolo di civiltà e di prosperità, forse solo per illusione (ma questo è un il personale pensiero di chi scrive). I passi, dicevamo, sono gli assoluti protagonisti perché esprimono il bisogno di ritrovare una meta, un punto cardine dell’esistenza umana, un luogo sicuro, una figura amica, un cuore che batte e conosce tutto, senza dire troppe parole. Passi che addirittura nel 2020, in occasione del lockdown dovuto alla pandemia del Covid-19, sono stati impressi simbolicamente sulla via che percorrono i pellegrini, attraversando anche la piazza, passando davanti all’antico loggiato settecentesco, fino a fermarsi sul sagrato di ciottoli, davanti il portone centrale della Basilica. Sono i passi che dettano l’andamento e che comunicano con lo spazio che circonda chi, come me, si avvia verso Melilli, nell’attesa che sia l’ora, che giunga il momento dell’apertura delle porte, nel cuore della notte e successivamente del rinnovato abbraccio a San Sebastiano che oltrepassa la soglia principale della sua “casa” per essere accolto da una moltitudine di popolo, fra gli spari di fuochi d’artificio, le campane a festa, le marce trionfali delle bande musicali e gli Evviva! Primu Diu e Sammastianu! (Prima Dio e San Sebastiano) urlati dai devoti. Quest’usanza del “viaggio” è tipica delle ricorrenze religiose e in alcune località della provincia di Siracusa, diventa attrazione ed esperienza diretta di chi, come il sottoscritto, ama conoscere le tradizioni di questa terra e ama raccontarne. Ancora passi dunque. Questa volta a Lentini, pochi giorni dopo la festa del Santo di Melilli è la volta dei festeggiamenti in onore di Sant’Alfio e dei suoi fratelli Cirino e Filadelfo, nella cittadina a nord di Siracusa che ha già molto di più dell’area catanese che dell’aretuseo. Ancora una notte e ancora passi. Il significato è identico, ovvero chiedere una grazia o un favore ai Tre Santi fratelli di Vaste in Puglia, martirizzati a Lentini e qui considerati come facenti parte di ogni famiglia lentinese, tanto che in ogni nucleo famigliare c’è almeno un Alfio, in onore al maggiore dei tre giovani. Cambia la modalità di questi passi, che si fanno più accelerati e si trasformano in corsa. Una corsa silenziosa, scandita dal tonfo dei piedi scalzi dei Nuri che dalle ore 1 del 10 maggio, compiono il cosiddetto Giro Santo. Nella tarda serata del 9 maggio, che si conclude con il rientro della processione del busto di Sant’Alfio che custodisce al centro del petto l’insigne reliquia del cuore, la zona della piazza centrale adiacente al muro che delimita l’area del sagrato della Chiesa di S. Maria La Cava e Sant’Alfio – ex Cattedrale – inizia a brulicare di giovani e adulti, che si preparano per affrontare il percorso del Giro Santo. Uomini di tutte le età che prendono posto fiancheggiando il muro, addossati alla grande cancellata in ferro e che poco alla volta iniziano a togliersi i vestiti per rimanere in calzoncini bianchi ed indossare la caratteristica fascia rossa a tracolla. In una mano un mazzo di fiori, l’altra lungo i fianchi, poi dietro la schiena, quasi a voler emulare le pose dei Martiri che a Lentini trovarono la morte e la successiva rinascita al cielo. Sono tutti scalzi. Si scaldano dando inizio alle invocazioni che, prima sparute, via via che si avvicina l’ora stabilita, si fanno continue ed incessanti. Un continuo ripetere E chiamamulu a Sant’Affiu! (e chiamiamolo Sant’Alfio) grida la singola voce di un uomo cui forte e in coro rispondono gli altri Sant’Affiu! (Sant’Alfio), e poi ancora E chiamamuli i Santi Mattiri! (e chiamiamoli i Santi Martiri), cui si risponde Mattiri Santi! (Martiri Santi). È così, in questa atmosfera densa di pathos e di suggestione, che il popolo dei devoti si scalda e si carica per affrontare il Giro Santo. Un giro che affonda le sue radici nella storia e nella tradizione. Un percorso che tocca tappe ben stabilite, raggiungendo i luoghi cardini delle ultime ore di vita dei Tre Santi. Un percorso lungo, che rievoca il loro arrivo e il passaggio per le strade dell’antica Leontinoi, un importante centro di origine greca, e che suggella ancora una volta il patto d’amore tra la città e i suoi Patroni. Alle 1 in punto, il grande campanone posto in cima alla facciata della Chiesa Madre, dà il via ai suoi rintocchi festosi, subito seguito dalle campane minori ed è in quel momento che si aprono le ante del grande portone centrale e viene mostrato al popolo il suo Patrono, Sant’Alfio. L’argenteo fercolo è pronto. Tutto è pronto per dare inizio a questo singolare pellegrinaggio. La precedenza è per i Nuri – che hanno un ingresso riservato – e che danno inizio a questo solenne momento carico di emozione. Non pochi occhi sono arrossati e non poche guance rigate di lacrime. In centinaia si accalcano per poter passare, correre velocemente verso il fercolo, ai piedi del Santo, assiso serenamente sulla sua imponente seduta e con le braccia spalancate, che sembra quasi dire “eccomi, sono qui in mezzo a voi, chiedete e vi sarà dato”. Inizia la corsa.Si precipitano a toccare il fercolo, appoggiarvi il loro mazzo di fiori per una carezza e il giro ha inizio. Migliaia di passi, migliaia di tonfi sordi sull’asfalto e sulle basole delle strade che sembrano suonare un ritmo antico e sempre nuovo. Una sinfonia speciale. Non le note solenni dell’organo della chiesa, non lo squillo dirompente delle trombe, ma il rumore dei passi. Sono talloni che sbattono sulla nuda terra, piedi che si graffiano sull’asfalto e rendono visibile quel “sacrificio” fatto con tutta l’anima. Il Giro Santo passa per la chiesa del Carcere, detta anche della Campana – per la caratteristica piccola campana che fa capolino sul muro che ne cinge il piccolo sagrato – una grande grotta di tufo chiusa da un cancello che ricorda il luogo dove vennero rinchiusi i tre pellegrini pugliesi prima di rendere l’anima a Dio. Ad accogliere i loro devoti, le statue dei Tre Santi in piedi, davanti l’ingresso del luogo le cui pareti – certamente – ascoltarono le loro ultime parole, le loro preghiere di ringraziamento e di affidamento a Dio. Si passa poi dalla chiesa della Fontana, luogo ricco di storia e di tradizione. In questa piccola chiesa dalla navata unica, tra poche ore “dormirà” il Santo. è in questa chiesa, infatti, che il fercolo di Sant’Alfio farà la sua sosta più lunga, la notte del 10 maggio che volge al giorno successivo, prima di riprendere il suo lungo cammino per le strade di Lentini dopo il solenne pontificale. In questa chiesa la tradizione vuole che i Santi subirono il loro martirio e che durante uno dei supplizi, al maggiore dei fratelli, Alfio, venisse strappata la lingua. Questa una volta caduta a terra avrebbe sobbalzato tre volte e ne sarebbe scaturita una fonte d’acqua. Quella fonte, oggi sotto il livello della pavimentazione, è incastonata in un pozzo coperto da uno spesso vetro che permette di vedere l’acqua che, durante i festeggiamenti, sembra salire anche di livello. Facciamo il percorso dei Nuri, ci stringiamo tra le file di “ospiti” – perché sono loro i protagonisti – aspettando di poter riprendere il cammino. Un cammino lungo circa 3 km, nella storia di Lentini e della sua fede antica. Un cammino costantemente accompagnato dal silenzio e dalla preghiera. Sembra un tempo surreale, un tempo che non è tempo. Lo spazio del sacro invade prepotentemente lo spazio urbano impregnando tutto intorno di un’atmosfera suggestiva. Le ore passano e quel tonfo dei passi dei Nuri si fa meno assordante. Alle prime luci dell’alba c’è ancora qualcuno di loro e altri devoti che compiono l’ennesimo giro, forse l’ultimo, prima di salutare la notte e attendere il momento più emozionante. Quello dell’uscita di Sant’Alfio. Tra lo scoppio assordante di migliaia di mortaretti e le carte colorate, ecco che alle 10 in punto, il fercolo di Sant’Alfio viene spinto fuori dalla chiesa e accolto dalla folla. Percorrerà tante strade, sarà accolto nei quartieri con solennità e gioia, ma nessun suono potrà restituire l’emozione suscitata dal rumore sordo dei devoti, dal rumore dei loro e dei nostri passi.