Essere donna a Pompei ieri e oggi
Allestita nella Palestra grande la mostra racconta l’universo femminile nel mondo antico Visitabile fino al 31 gennaio 2026
Antonietta Fulvio
POMPEI (NAPOLI). Essere donna a Pompei. Nomi, volti, testimonianze che emergono dalla lava che nel 79 d.C. seppellì uno dei centri abitati più fiorenti della Campania Felix. Esplorare la società e i luoghi del mondo classico per cercare di dar voce e pari dignità alle donne dell’antichità, questo il fulcro della mostra “Essere donna nell’antica Pompei”, allestita fino al 31 gennaio 2026 nella Palestra Grande, curata da Francesca Ghedini e Monica Salvadori in collaborazione con le università di Padova, Salerno e Verona. Sono più di seicento i nomi femminili catalogati dalle fonti epigrafiche che sono riproposti sui pannelli che aprono il percorso espositivo, che ci restituisce il quadro delle condizioni di vita di donne e bambine, grazie a quell’osservatorio privilegiato che sono appunti gli scavi del Parco archeologico di Pompei. Un sito archeologico che continua a stupirci per i continui rinvenimenti, non ultimo un prezioso vaso egizio ritrovato nel Thermopolium della Regio V, a conferma degli scambi commerciali e culturali con i paesi sull’altra sponda del Mare Nostrum.
In continuità con la precedente mostra “L’altra Pompei”, l’esposizione mette in luce attraverso l’articolazione di otto sezioni le diverse categorie femminili e il rispettivo ruolo all’interno della casa e della società romana del tempo. Matrone, liberte, schiave, raccontate nelle diverse fasi della vita: nascita, infanzia, matrimonio, maternità e morte attraverso le eccezionali testimonianze materiali: statue, affreschi, iscrizioni, graffiti e manufatti. Il racconto si snoda nelle prime sale partendo dalla figura delle matrone, impegnate nella gestione della domus, che era il centro dell’esercizio del suo potere. Alle matrone competevano infatti l’educazione dei figli, i rapporti con la servitù, e l’organizzazione delle nozze delle figlie femmine. Tra le varie attività, spesso aiutate dalle ancelle, svolgevano la filatura e la tessitura, simbolo delle virtù matronali. Nel tempo libero si dedicavano alla cura del proprio corpo, a piacevoli conversazioni con le amiche, ma anche ad attività culturali come lettura, scrittura, pittura, musica, danza.
Non solo matrone. A Pompei vivevano liberte e schiave, molte delle quali (si stima arrivassero a cento) costrette a prostituirsi. Ma c’erano anche donne che rivestivano ruoli di prestigio, imprenditrici che segnarono il loro tempo. Fra tarda repubblica e primo impero infatti le donne conquistarono spazi sempre più ampi al di fuori dell’orizzonte domestico e, grazie alla possibilità di amministrare i patrimoni di famiglia, diventarono protagoniste importanti sul piano economico-sociale. Matrone e liberte potevano essere titolari di imprese commerciali, manifatture artigianali di tessuti, laterizi e prodotti alimentari, proprietà immobiliari.
Grazie all’app MyPompeii la mostra diventa anche interattiva ed è possibile scoprire otto donne realmente vissute e la loro storia. Come Eumachia. Figlia di Lucio, produttore di anfore e laterizi, è una delle figure femminili più celebri di Pompei. Imprenditrice laniera, oltre che sacerdotessa pubblica, fra il 2 e il 3 d.C., fece erigere a sue spese edificio nel Foro. Sull’ingresso laterale è possibile leggere infatti l’epigrafe in latino che ricorda: «Eumachia, figlia di Lucius, sacerdotessa pubblica, a nome suo e del figlio Marcus Numistrius Fronto, costruì a sue spese il vestibolo, la galleria coperta e i portici: ella stessa li dedicò alla Concordia e alla Pietas Augusta». La sua tomba eretta nei primi decenni del I sec. d.C., si trova nella necropoli di Porta Nocera e testimonia l’onorificenza ottenuta in quanto sacerdotessa pubblica. Un onore concesso a poche, come alla contemporanea Mamia anch’essa sacerdotessa che ebbe l’onore di ricevere per decreto dei decurioni il luogo di sepoltura su suolo pubblico, immediatamente fuori Porta Ercolano.
Asellina l’ostessa che gestiva la locanda Termopolio, un luogo frequentato anche dagli aspiranti politici del tempo come Gaius Lollius Fuscus. Nella locanda di Asellina si poteva gustare un buon bicchiere di vino servito da tre graziose fanciulle – Zmyrina, Aegle e Maria – che all’occorrenza erano anche a disposizione dei clienti nelle stanze ai piani superiori. E ancora la schiava Eutychis che abitava nel quartiere servile della Casa dei Vettii nati schiavi ma poi divenuti esponenti di spicco del ceto libertino o Amaryllis, schiava operaia che lavorava la lana al servizio di Marco Terenzio Eudosso che aveva impiantato nella sua casa un laboratorio tessile dove faceva lavorare i suoi schiavi.
Giulia Felice, pur non avendo origini nobili, era proprietaria di una grande complesso (i cosiddetti Praedia) che occupava l’intera insula II e riuscì a trasformare la sua residenza in un complesso termale pubblico diventando un imprenditrice immobiliare di successo.
Infine Flavia Agatea, una liberta che dopo essere stata liberata dalla famiglia Flavia, insieme al marito Publio Flavio Philosseno, fece erigere ancora in vita un monumento funebre comunitario perché anche gli ex schiavi dei Flavi meno fortunati potessero avere un luogo dove riposare per sempre. Un monumento per ricordare come dignità e virtù non siano solo virtù delle donne aristocratiche.
Nascere in età romana era rischioso comunque per entrambi i sessi, non solo a causa delle scarse condizioni igieniche in cui il parto avveniva, ma anche per una norma di legge che affidava al padre la decisione se tenere in famiglia il neonato o la neonata oppure liberarsene. E in ogni caso il percorso era diverso per i bambini e le bambine che sì, giocavano e studiavano, ma con la fanciullezza lo studio diventava prerogativa maschile, alle donne invece era riservato un destino diverso: convolare a nozze, a volte anche dodicenni, con un marito scelto dal padre. Il matrimonio era l’atto più importante nella vita di una donna anche se la società romana riconosceva il concubinato ovvero l’unione stabile extra-matrimoniale. In entrambi i casi, i figli della coppia erano riconosciuti come legittimi. Il parto era uno dei passaggi più rischiosi nella vita di una donna, spesso morivano per complicanze come testimoniano le numerose iscrizioni funerarie.
Pompei era circondata dai monumenti funerari, che si distribuivano sulle strade in entrata e uscita dalla città come testimoniano le necropoli a Porta Ercolano e Porta Nocera. E sono proprio le iscrizioni, incise sulle facciate dei sepolcri, che ci restitituiscono informazioni preziose sul ruolo sociale delle donne di Pompei: matrone che costruivano tombe per sé e per il personale della famiglia; liberte che avevano raggiunto un prestigioso livello sociale; schiave, i cui nomi sono ricordati sulle columellae, segnacolo tipico del territorio vesuviano dove spesso figurano anche i nomi delle bimbe morte in tenera età. Ma se la presenza dei sepolcri ha concesso per certi versi l’immortalità ad alcune donne, migliaia sono quelle sepolte senza onore e rimaste sconosciute. Questo lungo racconto sul mondo femminile a Pompei non poteva che chiudersi con l’immagine di una donna in fuga dall’eruzione del Vesuvio che scrive Gabriel Zuchtriegel il direttore del Parco Archeologico di Pompei «seppellì la città, uccidendo un gran numero di donne, uomini e bambini ma al tempo stesso preservando le tracce – in maniera abbastanza “democratica”, ovvero senza fare molta differenza in base a genere, età e status sociale – della loro esistenza.»
L’eruzione e la storia di Pompei hanno da sempre affascinato la cinematografia, sin dagli esordi con il muto, contribuendo alla creazione di stereotipi della donna romana relagata a ruoli di debolezza o «oggetto erotico». Con l’avvento del sonoro con la cura dei dialoghi si sono meglio caratterizzati i personaggi e dunque anche le figure femminili e l’evoluzione delle tecniche cinematografiche ha permesso una rappresentazione più sfumata e realistica e una maggiore autenticità nei personaggi femminili nei film ambientati nell’antica Pompei nel racconto che precede la sensazionale eruzione. Un passaggio importante ai fini di una narrazione dove la donna inizia ad essere rappresentata come persona con desideri, ambizioni e conflitti interni e non come semplice figura decorativa.
Ciò che sappiamo di Pompei ci è stato trasmesso da coloro che hanno esplorato e studiato l’antica città nell’arco di due secoli e mezzo di scavi. Si tratta per lo più di uomini ma importanti sono stati i contributi apportati dalle donne.
Donne che sono ricordate alla fine del percorso espositivo con un salto nella contemporaneità, partendo dalla figura di Carolina Bonaparte che il 27 ottobre 1808 visitò gli scavi accompagnata dal direttore Michele Arditi. Affascinata dai reperti, Carolina sostenne con i fondi reali nuovi scavi assegnando a un reggimento dell’esercito francese il compito di scavare lungo il tracciato delle mura della città e con l’acquisizione delle terre dei contadini Pompei assunse l’aspetto di un sito archeologico visitabile. Inoltre finanziò l’architetto francese François Mazois e lo incoraggiò a filmare gli scavi, a realizzare una planimetria e sua fu l’idea, espressa al Ministro degli Interni, di assegnare un nome a ciascun quartiere della città e alle strade. Ma la sua lettera al Ministro fu inascoltata. Cinquant’anni dopo, l’idea riproposta dal direttore Giuseppe Fiorelli fu invece accolta.
Nata a Mosca nel 1880, Tatiana Warscher fu costretta a fuggire dalla Russia e su suggerimento di un suo ex professore universitario, lo storico dell’antichità Michael Rostovzeff, si trasferì nel 1923 in Italia, dove intraprese la prima indagine sistematica sugli edifici di Pompei. Durante la seconda Guerra Mondiale, la città vesuviana fu bombardata e le fotografie scattate da Warscher negli anni precedenti il bombardamento assunsero un valore inestimabile, essendo spesso l’unica testimonianza dell’esistenza di edifici risparmiati dalla lava ma distrutti dalla guerra. Tornò a Pompei per documentare i danni, i suoi Taccuini contenevano uno studio completo di una vasta area di Pompei che non volle mai pubblicare ma mise a disposizione degli studiosi. Alla fine però vennero pubblicati da Halsted B. Vander Poel che volle dare giusto risalto al suo lavoro. Verso la fine della sua vita, Warscher strinse amicizia con la dottoressa Wilhelmina Jashemski; accomunate dall’interesse per i giardini dell’antica Roma. Dopo aver identificato tutti i giardini presenti a Pompei, nel 1961 Wilhelmina Jashemski ottenne il permesso di effettuare scavi a Pompei e grazie alla tecnica dei calchi identificò le diverse specie vegetali delineando un quadro esaustivo di ciò che i pompeiani coltivavano, vendevano e mangiavano.
Olga Elia, nata a Nocera Inferiore nel 1902, apprezzata per la diligenza nella conduzione delle indagini ricevette il compito di ordinare le collezioni museali dall’allora direttore del Museo Nazionale, professor Amedeo Maiuri. La carriera all’interno della Soprintendenza italiana la vide ottenere nel 1933 l’incarico di ispettrice archeologica e, nel 1940, il prestigioso ruolo di Direttrice degli scavi di Pompei, divenendo una delle poche donne responsabili della gestione di Pompei. Documentò importanti scavi, occupandosi in particolare dei motivi decorativi all’interno delle pitture murali. Particolarmente apprezzati furono le monografie dedicate all’analisi delle decorazioni della Casa del Citarista e del Tempio di Iside. In seguito ad un conflitto con Amedeo Maiuri, fu sollevata dall’incarico a Pompei. Soprintendente presso la Soprintendenza archeologica della Liguria concentrò le sue ricerche sull’area di Luni che culminarono poi con l’inaugurazione del Museo Nazionale dell’antica Luni.
«L’eredità che accogliamo dal mondo antico, in particolare dalla società romana e dalla prospettiva straordinaria della città di Pompei, – scrivono le curatrici Francesca Ghedini, Monica Salvadori – è per noi una grande sfida per dare un contributo concreto al tema contemporaneo della parità di genere, con la consapevolezza che, per scardinare i meccanismi culturali che condizionano ancora il nostro presente, il punto di partenza rimane sempre il passato, pur con le sue divergenze sostanziali.»
Oggi a Pompei e nei siti della Grande Pompei (Oplontis, Stabiae, Boscoreale), lavorano più di duecento donne. Sono attive nella ricerca, nella progettazione, sullo scavo, nell’organizzazione di mostre ed eventi, nella comunicazione, in archivio e in biblioteca; sono impegnate in attività amministrative, nella fruizione e nell’accoglienza dei visitatori, nella vigilanza, nel restauro, nella manutenzione ordinaria dei vari siti. Sono le donne del Parco Archeologico di Pompei che insieme contribuiscono ogni giorno alla tutela e alla valorizzazione del nostro patrimonio. Riconoscere il valore delle donne, il loro lavoro, il loro impegno e testimoniarlo è la pratica culturale necessaria per poter arginare e contrastare la violenza di genere.
Non è sufficiente una giornata celebrativa.
Educare al rispetto delle differenze e valorizzare le esperienze così come le competenze lavorative che non sono solo una prerogativa maschile ma assicurare che entrambi abbiano pari accesso a risorse, responsabilità, opportunità e diritti. E questo significa, in sostanza, rispettare l’Articolo 37 della nostra Costituzione e abbandonare quella serie di stereotipi nati tra le pieghe di una società antica e maschilista e cristallizzati nel tempo come corpi restituiti dai calchi di gesso. Da qui bisogna partire. Perché essere donna non sia una disgrazia ma la più bella delle opportunità che la vita ci regala.










