L’antica tradizione della cartapesta leccese

Una lavorazione minore divenuta artigianato d’eccellenza

Sara Foti Sciavaliere

C’erano una volta (a partire dal XVIII secolo)… e ci sono ancora, sparse tra i vicoli, le vie e le corti del cuore barocco di Lecce, le botteghe della cartapesta. Una tradizione dalle radici partenopee che si afferma a Lecce nella produzione di statuaria sacra.

Nelle botteghe dei mastri cartapistari di Napoli venivano prodotte opere per lo più d’ispirazione religiosa e da lì queste giunsero in Terra d’Otranto su richiesta di eminenti ecclesiastici e dell’aristocrazia locale, convinti del prestigio che derivava dalla presenza di manufatti di una tale qualità e raffinata fattura esposti all’interno dei loro edifici. La fioritura delle produzioni di cartapesta nel Salento si verifica principalmente alla fine dell’interdetto (1711-1719), che aveva costretto all’inattività gli operatori dell’edilizia sacra in città, alcuni di essi – tra i quali lo scultore di pietra leccese Cesare Penna – si erano dedicati a lavori di stucco. Quest’ultimo tipo di lavorazione mostra delle evidenti affinità di tecnica con la lavorazione della cartapesta, come dimostra la decorazione interna della chiesa di Santa Maria della Nova, a Lecce, dove otto figure angeliche, in cartapesta monocroma collocate sull’architrave, non si distinguono dagli stucchi delle cornici, dei capitelli e degli altri elementi decorativi. Documenti, fonti storiche e le opere del tempo riconoscono a Mauro Manieri, scultore e architetto leccese, il merito di aver conferito alla locale produzione di cartapesta la dignità di arte autentica e originale. Alla lezione di Manieri si rifà Pietro Surgenti, detto anche Mesciu Pietru te li Cristi, il primo cartapestaio leccese ufficialmente riconosciuto grazie alle fonti documentarie che accreditano la sua produzione.
Tra la prima e la seconda metà del XIX secolo si assiste all’introduzione di alcuni barbieri nel mondo dei cartapestai: di fatto, i primi trasformarono, nelle ore di inattività, le loro botteghe in veri e propri laboratori di terracotta prima e di cartapesta poi. La loro produzione e la qualità dei loro manufatti era da considerarsi marginali rispetto a quelli dei cartapestai, in quanto si dedicavano alla modellature solo i momenti di ozio e dunque non c’era un costante impegno che permetteva di migliorare e affinare la loro tecnica: le botteghe dei barbieri diventano soprattutto dei laboratori di pupi da presepe, esposti durante la fiera detta dei “Panieri di S.Lucia”.


Se la statuaria sacra e devozionale ha animato le numerose botteghe nate nel centro storico del capoluogo salentino, non si può non ricordare un’altra testimonianza di questo artigianato: un unicum in tutta la Puglia è il controsoffitto della Chiesa di Santa Chiara, composto per i suoi 300 mq di elementi modulari in cartapesta, lavorati e dipinti a imitazione dei cassettoni lignei visibili in molte altre chiese barocche della città e dei dintorni.
A testimonianza di quest’artigianato di eccellenza è possibile visitare il Museo permanente della cartapesta, allestito in alcuni ambienti a piena del Castello Carlo V, in particolare la galleria sotto il portico settentrionale che affaccia sulla piazza d’armi. Le opere esposte fanno parte del patrimonio artistico in cartapesta della chiese leccese di Santa Maria della Vergine, detta della Nova, e altre provengono dalla chiesa di San Giovanni di Dio e dall’attiguo Istituto Margherita di Savoia, già convento dei Frati Fatebenefratelli. Si possono ammirare opere d alcuni maestri storici della città, da Malecore a Indino, da Manzo a Guacci e Capoccia, per fare alcuni esempi. Due vetrine del museo poi mostrano gli strumenti e le fasi di lavorazioni.
Per realizzare una statua in cartapesta leccese si parte dall’anima della statua che è uno scheletro in fil di ferro di grosso diametro, rivestito di paglia legata con lo spago o il filo di canapa a creare un modello anatomico sul quale si andranno ad associare mani, testa e piedi di solito in terracotta, e poi aggiungendo il rivestimento di cartapesta. I fogli di cartapesti, provenienti dalle cartiere di Amalfi, vengono frammentati in piccoli pezzi che saranno incollati utilizzando quella che in dialetto viene chiamata “ponnula”, ossia la colla di farina, alla quale viene aggiunto il solfato di rame per il suo valore antisettico, preservando la scultura dall’eventuale aggressione di insetti attratti dalla farina della colla. Si passa dunque alla vestizione: pezzi di cartapesta più grandi vengo bagnati con la colla di farina e modellandoli sul manichino, si dà forma agli abiti della statua. Dopo l’essiccamento – che avviene a circa 30° in ambienti chiusi in inverno e all’aperto in estate -, sarà dunque la volta della focheggiatura: si usano dei ferri arroventati nella carbone e si passano con brevi pressioni sulla statua, eliminando eventuale imperfezioni dei panneggi dell’abito e in generale liscia a fuoco la superficie, uniformando i vari strati sovrapposti e lavorati in fase di vestizione. Seguirà la gessatura – con vari strati di gesso Bologna e colla di coniglio, fino a uno spessore di 1cm -, levigata poi con carta vetro a grana sottile, e quindi la coloritura che prevede una prima stesura di colori a tempera e una seconda ad olio. Un processo di lavorazione che si ripete da secoli nelle botteghe dei cartapestai di Lecce, immutato, fedeli alla tradizione.
Ma qual è il cammino che sta percorrendo questa tradizione e verso dove può muoversi? Ho voluto chiedere la sua opinione a uno dei nostri maestri cartapestai, Marco Epicochi.
Leccese, classe 1974, ha iniziato con il nonno, maestro puparo (produceva i pupi di terracotta per tutto l’anno e poi li esponeva per la Fiera di S.Lucia). Il nonno ha poi voluto che il nipote Marco imparasse altre tecniche presso altri maestri (la cartapesta con Malecore e Indino) e la scultura della pietra leccese (da Marcello Gennari e Luigi Russo). Si è quindi diplomato in scultura all’Istituto d’Arte “Pellegrino” di Lecce. Frequenta poi per qualche anno l’Accademia di Napoli, dove studia la lavorazione della terracotta, per tornare nella sua città e collaborare con i maestri Malecore e Mari Di Donfrancesco. Aprirà la sua bottega, in Piazza Duomo, il cuore religioso della città, nel 1999, e lo troviamo ancora lì, vantando committenze principalmente ecclesiastiche, ma pure private a fini devozionali; commitenze italiane ed estere: per fare alcuni esempi, a Betlemme, per il Santuario di S.Caterina d’Alessandria, una statua della santa; un San Nicola per la Cattedrale di Tirana; un bassorilievo di San Carlo con l’apparizione della Madonna per la Cattedrale di Berlino.
Dunque, Maestro, a suo avviso, la produzione in cartapesta oggi mantiene il passo con la modernità conservando le proprie peculiarità o per sopravvivere andrà incontro a un processo di adattamento dei materiali e delle tecniche?
M.E.: C’è in effetti un uso di materiali diversi da quelli della tradizione ma che si associano a quelli del passato, è un modo per sperimentare, ma la cartapesta non si può sostituire per la sua resa in lavorazione. Nella mia personale esperienza professionale, i materiali si conservano, tuttavia non nego che ci sia uno sguardo nel passato ma guardando al futuro, così nelle mie opere i vecchi canoni della cartapesta si incontrano con l’arte contemporanea, soprattutto nel drappeggio degli abiti e nella modellazione dei volti.
-Si tratta di un mestiere di bottega, ma la verità è che ad oggi non si prospetta una continuità con nuove generazioni di giovani artigiani che possano subentrare ai cartapestai in attività. Quale potrebbe essere la strada da intraprendere per permettere alla tradizione di essere trasmessa e tramandata e non rischiare di estinguersi?
M.E.: Sarebbe importante partire dalle scuole, magari quelle professionali (quella che un tempo era detta la “Suola dell’Edilizia”), per formare così nuove generazioni che possano così scegliere di intraprendere questo mestiere, che deve essere anche un passione. Èvero che c’è per esempio presso l’ex Società Operaia, la Scuola Maccagnani, dove si svolgono corsi sulle tecniche dell’artigianato, ma si tratta di corsi amatoriali, dove manca il fine professionalizzante. Non c’è dubbio che la modalità migliore per trasmettere quest’arte sarebbe la gavetta, l’apprenditato in bottega: però se una volta c’erano le grandi botteghe che formavano e davano poi lavoro, la verità è che oggi non si riesce più a tenere un apprendista in bottega, e spesso sono le leggi che non lo consentono più. Se magari le istituzioni locali, programmando interventi e piani appositi ( ma di fatto, non solo sulla carta) venissero incontro alle incombenze economiche, forse questo sarebbe già un possibile inizio.
Per chiudere, Maestro, mi conceda la curiosità e una domanda un po’ pettegola.
Tutti i mestieri hanno i loro segreti, quei piccoli “trucchi” spesso maturati nell’esperienza e trasmessi dal maestro all’apprendista, come una preziosa eredità da consegnare e custodire gelosamente, è così anche per i cartapestai?Al di là della pratica ufficialmente condivisa, possiamo dire che, perizia ed esperienza a parte, possono esserci quei piccoli segreti a garanzia di un’opera finita di sicura qualità?
M.E.: Decisamente sì. Ma se ti aspetti che adesso ti riveli quei segreti, non potresti uscire poi dalla bottega (afferma serio, sospendendo per un attimo il suo lavoro e guardandomi con fare di finta minaccia – n.d.a.) Comunque, per quel che mi riguarda, quei piccoli trucchi che ho fatto miei li ho più che altro acquisiti con la mia personale esperienza, studiando e analizzando le opere dei maestri del passato cercando di carpirne, appunto, i segreti, quindi non tanto per una trasmissione diretta delle conoscenze. Ad esempio, nella fase di modellazione dell’anima della statua, ho imparato a usare dei materiali che, per la loro composizione, hanno in sé delle proprietà antisettiche, preservando quindi la statua dagli insetti, in aggiunta agli altri espedienti già noti nella tradizione. Va anche specificato la condivisione dei saperi purtroppo non avviene tra i maestri, tra i quali vide una sorta di rivalità che si può considerare anch’essa parte della tradizione stessa.
Lascio il maestro Epicochi a rimestare la “ponnulla” nella pentola, il miscuglio di acqua e farina (con un pizzico di sale) si sta addensando, per poi essere usato per inumidire i pezzi di cartapesta e modellare una nuova opera che prenderà forma, in quella bottega che guarda piazza Duomo, dove a breve sarà allestito il grande presepe con le strutture in conci di calcare e le statue in cartapeste, a salutare fedeli e visitatori che nel periodo di Natale raggiungeranno la cattedrale.