Il richiamo alla terra nel femminile mediterraneo

Donna Mediterraneo

Arte-Tradizione Architettura-Anima

 

di VITALDO CONTE

 

 

Tra le emergenze dell’arte contemporanea c’è, da alcuni decenni, la presenza sempre più numerosa e stimolante della donna. Ciò è presente anche nel recupero creativo di manualità legate alle tradizioni artigianali, ritenute in passato arti minori. Questo cucito/ricamo/tessitura è entrato nella ricerca più avanzata, riconvertendo «usi» che erano considerati, in passato, apprendimenti dovuti per una donna. Tutto ciò è presente naturalmente nel corredo artistico del Femminile nel Mediterraneo: da intendere come richiamo alla terra, alle sue ritualità e mistiche.

 

Nella visione naturalistica della vita la tradizione mediterranea è prevalentemente femminile-materna, che spiega l’influenza delle divinità-donne. L’essere tellurico coincide con le «razze meridionali», legate alla terra e alle sue presenze, vivendo nella ritualità collettiva come componente della sua parte alchemica. Ciò costituisce il «fuoco» della tradizione mediterranea: i misteri iniziatici del suo bacino sono profondamente «segnati» dal femminile. Una delle prime divinità, nate nell’immaginario arcaico-mitologico dell’uomo, è la Dea Madre, vista come dea della fertilità e utero dell’universo. Questa divinità è identificata con la terra, elemento femminile e materno, nel cui corpo si compie il ciclo di vita-morte-vita: in questa concezione la creazione è una prerogativa femminile, in quanto procrea e feconda.

La pratica artigianale e tradizionale può essere recuperata per esprimere suggestioni ancestrali, memorie e frammenti di un’arte-esistenza. Impunturata e ricamata come «narrazione»: autobiografica, onirica, metafora epidermica, lingua di solitudine e passione, colloquio con l’altro e la quotidianità. L’arte-donna risulta sensibile alle trasformazioni e insidie ambientali «intorno»: auspica architetture di accoglimento (come quelle presenti sulle rive del Mediterraneo), ricercando identità «altre»per le immagini e rappresentazioni del reale. I risultati costituiscono un’indicazione-alternativa, anche controcorrente, alle proposte confezionate dai sistemi dell’arte.

Questa donna-artista «doppia», con l’uso di materiali vari, corporeità e presenze sinestetiche che possono diventare vestito o accessorio di abbigliamento, lenzuolo o copriletto, tappeto o arredo di casa, cibo o essenza profumata, ecc. Il patrimonio immaginale del femminile include la lettura ironica, mistica, sensuale, ma anche momenti riflessivi, fondendo, nelle sue trasposizioni, abilità artigianali e il piacere del racconto. Questi «s/oggetti» sintetizzano attività antiche e nobili, come quella del telaio o vasellame, in dialettica con la modernità, ripercorrendo epoche e specificità in un viaggio atemporale che diviene interiore. L’eclettismo espressivo racconta imprevedibili contaminazioni d’arte e rinnovate simbologie mitiche nei propri interni moventi di erranza: come nelle sue direzioni a Sud.

Ho espresso questo discorso negli eventi di DonnaArte (2006-07), tra cui la grande mostra curata nel Salento (a Trepuzzi) con artiste del Sud Italia e dell’Iran. Ho documentato, in una pubblicazione (Il Raggio Verde Ed.), le trame del percorso espressivo, soprattutto quello diversamente elaborato del corpo-abito, partorito dall’invenzione e dal piacere manuale. Il materiale scelto per la realizzazione è, talvolta, naturale o fragile, come quello degli ambienti dell’esistenza e dell’anima: filamenti di varia provenienza, cellulosa, cibo, cera, cotone, carta, terra lavica, memoria-riciclaggio, ecc.

Il Mediterraneo, accogliendo le terre a sud dell’Europa e delI’Italia insieme alle coste del Maghreb (l’altra sua faccia, che ha visto sorgere la grande civiltà arabo-islamica), può divenire «laboratorio» di geo-lingue che rileggono tradizioni e contaminazioni artistiche (espressive, naturali), anche grazie al «filo-cucito» dell’ultima donna-arte.

La geo-architettura può essere, insieme, una geo-arte e una geo-grafia, condensando la memoria delle diverse civiltà, le stratificazioni di percorsi storico-culturali. Elabora le contaminazioni formali con l’immaginazione e l’analisi interiore, come se fosse una costruzione di sassi. Può divenire anche «orecchio», che ascolta e spia le voci dell’ambiente con il suo oltre, amplificando le dimensioni-letture sinestetiche, catalizzando relazioni comunitarie «sensibili». Dovrà rinascere dalle ceneri dell’ultimo moderno, tornando a essere costruzione e narrazione di archetipi, rifiutando gli abusi del consumo, per creare la comodità dell’oggi in «ambienti», che non debbano essere solo esibizione di «esterni». «Forse, dopo tanti secoli di prevalente architettura “al maschile”, che esalta il volume e la capacità di occupare il vuoto con i simboli del potere, sarà necessaria una architettura “al femminile”, sollecita alla creazione e riproduzione di spazi e di vuoti accoglienti. La terra ha un gran bisogno di questa architettura della dolcezza» (P. Portoghesi).

L’attuale dispersione creativa ricerca opere con atmosfere e materialità dai confini volutamente sfuggenti o virtuali. Questi ambienti vogliono suscitare sensibilità e comunicazioni emozionali che coinvolgono l’esterno. Si «edificano» come architetture di vibrazione e di processi interni che muovono reattività psichiche e contagi, abolendo, talvolta, la distanza tra autore e fruitore. Aspirano a diventare architetture di idee e di coscienza naturale, evocando archetipi, mondi che ritornano per «rimuovere» la nostra esistenza. I loro ambienti, sinestetici e plurilinguistici, non si edificano, almeno nella genesi di nascita, per esistere nei delimitati e neutri spazi di una galleria: ma in quelli in cui possono «con-vivere» con i loro significati e la propria natura. Anche l’architettura, ogni espressione d’arte, può, come la medicina olistica, che guarda l’uomo nella sua totalità (corpo-mente-anima), edificare e ascoltare proprie sensibilità olistiche attraverso espressioni «non separabili», che hanno un habitat naturale nelle costruzioni mediterranee dell’anima e del femminile.

(da ‘Il Borghese’, dicembre 2013)