Schegge di Virus

“Tutta la vita che non stiamo vivendo per non rischiare di morire “.
A. Baricco

Il termine parresia è stato usato per la prima volta da Euripide nel V secolo a.c., il grande tragico greco lo utilizzò per indicare una nuova virtù: quella di dire sempre la verità, con coraggio e senza infingimenti.
Dunque la parresia ci ha insegnato, dolorosamente, ad affrontare il mondo a mani nude. è ciò che è successo col virus. Niente è più garantito.

L’esistenza, nella vita di prima, era preordinata, irreggimentata in un perimetro conosciuto , dove certamente c’erano vicissitudini e traversie, ma tutto era catalogato, indagato, studiato. Per tutto, o quasi tutto, le soluzioni portavano a mappe cognitive ed emotive. Adesso scopriamo che la mappa non è più il territorio. Il territorio ci è estraneo, si disvela una realtà nuova: la Natura non è perfetta, ma tutto è un gioco di rimaneggiamenti e l’essere umano si trova in mezzo alla imperfezione e di più, dove c’è disequilibrio tossico c’è vita deteriore. Deteriore per noi umani.
La parresia, la verità del nostro tempo è questa.
Tutto dunque è incertezza e precarietà. Abbiamo appreso che l’esistenza è anche questo. Non c’è una sicurezza per tutto. Forse è così da sempre. è stata la società occidentale che ha messo ogni singolo individuo al riparo dall’angoscia del nulla.
Ma dove ci porterà tutto questo ? Non lo sappiamo con precisione e le risposte sono molte e ambivalenti.
Sappiamo intanto che la ferita inferta è stata profondissima , perché la pandemia ha sdoganato il remoto, il non poter accogliere il presente, ha fatto evaporare la consapevolezza della propria integrità.
Tutti, in modo diverso ne sono stati colpiti. Pensiamo all’infanzia, all’adolescenza, alla prima giovinezza.
L’adolescente per esempio ha bisogno di stupore, ha bisogno di affacciarsi sul mondo con la meraviglia della prima volta, che non può trovare fra le mura domestiche, dalle quali cerca invece di scappare.
Il giovane ha perso lo slancio ideativo tipico della sua età, la clausura non lo ha liberato dall’egoismo dell’io.
E se già il matrimonio è una scuola di resistenza, la convivenza continuativa ha spesso acuito le asprezze dei caratteri e la compresenza di emozioni e sentimenti contrastanti. L’anziano poi è stato dominato dalla angoscia di perdere il proprio spazio vitale fatto di rituali, di incontri che sono per lui identità, partecipazione e riconoscimento.
In tutta questa precarietà solo due elementi hanno dominato: l’algoritmo e la solitudine .
Il pensare è stato delegato ai vari devices che hanno elaborato informazioni. Dove tuttavia non c’è orizzonte affettivo, ma solo frastuono e sensazione di congenita disappartenenza. La solitudine infine è diventata il valore massimo, ci si salva solo così, perché solo in questo modo ci si sente iperallertati e iperprotetti di fronte alla minaccia virale.
è possibile, adesso, sondare altre lunghezze d’onda?
Aspettarsi il meglio è già un buon inizio .Ma forse non basta. Come dare allora sostanza a un discorso di resistenza interiore ? Una consulenza filosofica ci restituisce forse uno spunto di riflessione. Aretè significa virtù. Parlare di virtù vuol dire parlare di ciò che rende la vita umana degna di essere vissuta. Vivere insomma da essere umano, con le proprie capacità e con i propri limiti. Ispirandosi sempre a tre criteri fondativi: il bene, il bello, il giusto. Ne discende la necessità per ognuno di noi di essere migliori, sempre e più di prima, solo in questo modo avremo accesso alla phronesis, che è il sentire dentro la scelta giusta da fare. Cosi naturalmente.
“Sta’ buono, sta’ più calmo, mio Dolore”. Charles Baudelaire